“La realtà si forma soltanto nella memoria” 
(Marcel Proust)

 

APPUNTI SUL LAVORO BIANCA/
La luce è elemento che determina lo spazio, sottraendolo al buio in porzioni, segmenti e forme geometriche: il cerchio, il disco e la sfera sono le figure primarie del lavoro en-space e determinano la composizione dei movimenti di scena sia corali che individuali.
Il susseguirsi delle scene procede per rievocazione, svela brandelli della memoria di Bianca senza vincoli. Luce, suono e corpo sono l’origine della drammaturgia scenica.
La Musica è spinta verso l’essenza: la nota unica è generatrice di una nuova complessità, di una composizione originale. È drammaturgia a cui i corpi si affidano perdutamente.
Il Corpo degli attori affronta ritmicamente il movimento, che è inteso come unico dispositivo di interpretazione per l’attore.
Bianca è uno spettacolo banalmente fisico, legato al corpo degli attori, non solo dal punto di vista della sapienza che mettono in campo, ma soprattutto per quell’aura che li avvolge e li rende segni profondi della scena.

NOTES ON BIANCA/
Light is the element that defines the space, subtracting it from the darkness in portions, segments and geometric shapes: the circle, the disc and the sphere are the primary figures of the en-space work and determine the composition of both choral and individual scene movements. Unconstrained , Bianca reveals shreds of her memory, while light, sound and body create the scenic dramaturgy , a succession of scenes proceeds by re-enactment. Music is pushed towards the essence: the unique note is the generator of a new complexity, of an original composition. It is dramaturgy to which the bodies are hopelessly entrusted. The Body of the actors tackles rhythmically the movement, which is intended as the only expedient of interpretation for the actor. Bianca is a trivially physical performance, linked to the actors’ bodies. Their bodies, enveloped by an aura of high wisdom and energy, make them deep signs of the scene.

Foto

LE MUSICHE/
In Bianca si è proceduto per “visioni” e senza seguire un vero e proprio copione in senso tradizionale. Idee e visioni sono state ciò che hanno definito un campo dove scena e suono si fondono e si supportano vicendevolmente per definire un immaginario.
Non si è mai pensato a una fine né a un inizio, ma piuttosto a uno spazio. In particolare, uno spazio che racconta un vuoto cosmico che assorbe la rappresentazione stessa. In questo senso una frequenza costante accompagna pubblico e attori dal “non-inizio” alla “non-fine”.
Questa frequenza si evolve in brani musicali composti volutamente senza conoscere il testo, ma solo la visione di esso. Tutto quello che avviene all’interno della rappresentazione è movimento sonoro e visivo contenuto nel “sempre”. Ciò che avviene in scena, avviene nella musica non come commento, ma come ricostruzione di uno spazio. I temi incalzanti e a volte ossessivamente lirici vengono destrutturati e ricuciti.
Geometrie vengono costruite distrutte e ricreate suscitando un contrasto percepito come quiete e angoscia senza fine.
(Gianni Gebbia e Giovanni Verga)

MUSICS/
Never thought of an end or a beginning, but rather a space. In particular, a space that tells a cosmic void that absorbs the representation itself. In this sense, a constant frequency accompanies the public and actors from “non-beginning” to “non-ending”. This frequency evolves into music composed deliberately without knowing the text, but only the vision of it. Everything that happens within the representation is sound and visual movement contained in the “always”. What happens on stage happens in music not as a comment, but as a reconstruction of a space. The pressing and sometimes obsessively lyrical themes are de-structured and sewn up. Geometries are built destroyed and recreated, causing a perceived contrast as stillness and endless anxiety.
(Gianni Gebbia e Giovanni Verga)

Bianca è il nome di una donna. Si manifesta dal buio, arroccata in cima alla torre della sua solitudine, come rapita da un incantesimo. Ha paura della sofferenza, della vecchiaia, della mancanza d’amore, della fine, e la melanconia la cinge come una sorella dolce della morte. Il suo sguardo non si posa su niente, la proietta lontano dalla realtà, sempre più lontano fino a ripiegarsi su se stessa.
In questo movimento verticale di discesa, due personaggi, inizialmente a lei poco familiari, la condurranno, attraverso le tracce della memoria, nel disordine della sua esistenza. Questi due Maître della scena, fini manipolatori del tempo e dello spazio, nel duplice ruolo di custodi e protagonisti della memoria di Bianca, costruiscono e sconvolgono atmosfere e situazioni.
Lo spettacolo non è un racconto di eventi, bensì uno scavo archeologico dell’universo femminile. Bianca muta scalza e smarrita attraversa mondi sterminati alla ricerca della sua identità di donna, condizione primaria, che le permetterà di generare l’unica parola vera in risposta alla sofferenza della sua esistenza.
(Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco)

Bianca is the name of a woman. Revealed from the darkness, perched atop the tower of her solitude, as if kidnapped by a spell. She is afraid of suffering, of old age, of lack of love, of the End, and melancholy surrounds her like a sweet sister of death. Her gaze doesn’t rest on anything, it projects her far away from reality, farther and farther and farther until she folds back on herself. In this vertical movement of descent, two characters, initially unfamiliar to her, will lead her, through the traces of memory, into the disorder of her existence. These two Maître of the scene, fine manipulators of time and space, in the dual role of custodians and protagonists of Bianca’s memory, build and upset atmospheres and situations. The show is not a tale of events, but an archaeological excavation of the female universe. Barefoot mute Bianca crosses endless worlds in search of her identity as a woman, a primary condition that will allow her to generate the only true word in response to the suffering of her existence.
(Sabino Civilleri and Manuela Lo Sicco)

Ideazione e regia / Conceived and directed bySabino Civilleri e Manuela Lo Sicco.
Con / With: Filippo FarinaManuela Lo Sicco e Simona Malato
Drammaturgia musicale / Musical Space: Gianni Gebbia Giovanni Verga
Scenografia / ScenographyCesare Inzerillo
Luci / LightsCristian Zucaro
Organizzazione / Organization: Roberta Gatti 
Distribuzione / Responsible for distributionGiusi Giardina
Ufficio stampa A.C. Civilleri/Lo Sicco / Press office A.C. Civilleri/Lo Sicco: ufficiostampa@civillerilosicco.it
Progetto grafico / Graphic Project: Eugenio Notaro Web & Graphic Design
Produzione / The production was carried out by: A.C. Civilleri / Lo Sicco
Supporto alla produzione / Production supportUOT – Unità di Organizzazione Teatrale
In collaborazione con / In collaboration with: TMO – Teatro Mediterraneo Occupato

Press

associazionestrummula.com - Autore: Kevin Manuel Rubino - 18/10/2019

RIFLESSIONI SU “BIANCA” E “BALLARINI”

Esiste un filo conduttore che unisce questi due spettacoli? Perché li sto inserendo nella medesima riflessione? Effettivamente non è un caso: esistono due motivi. Il primo è di carattere temporale, perché sono andati in scena a distanza di quattro giorni; il secondo riguarda il duo Civilleri-Lo Sicco, attori in Ballarini di Emma Dante e ideatori e registi in Bianca, la cui omonima protagonista è Manuela Lo Sicco. Il primo spettacolo è andato in scena nella Sala Strehler del Teatro Biondo, il secondo invece al Teatro Mediterraneo Occupato.
Bianca
Ricordo che, quando andavo alle elementari, rimasi stupito da una storiella che l’insegnante ci raccontò circa una principessa rinchiusa in un castello. No, non era Shrek. E nella mia ingenuità infantile mi chiesi perché mai quella principessa avesse il desiderio di essere salvata: era al sicuro e nessuno le avrebbe rotto le scatole. Niente scuola, pensai, che bello. Come darle torto, se penso a tutte le distopiche ansie cui la società ci sottopone. Fortunate dunque le principesse che vivono rinchiuse in un castello nell’attesa del loro (dis)eroe che le salvi.
Entrando in sala, Bianca è già in scena ed è seduta sulla sua torre di sedie che la erge al di sopra di tutti. Nella sua torre, ella è al sicuro e osserva il pubblico che entra: ne è impaurita e di ciò è prova il fatto che ogni tanto ha un sussulto alla vista di questi esseri bestiali. Bianca non è una principessa che attende il proprio (dis)eroe, perché lei vuole rimanerci, lì, in quella torre. E come darle torto!  Eppure la situazione è pronta a cambiare, poiché la vita è precaria e per quanto tu possa cercare di sfuggire ai suoi meccanismi contorti e soffocanti essa ti metterà sempre alla prova. Insieme a Bianca vi sono due personaggi che rappresentano la sua memoria e anche il motore scenico dello spettacolo, rappresentati da Filippo Farina e Simona Malato. Quest’ultima è colei che costringe Bianca a scendere dalla sua torre privandola delle sedie su cui è al sicuro, ma è un atto necessario affinché inizi il suo viaggio nello spazio e nel tempo della memoria. Bianca è impaurita e terrorizzata da questa sua nuova situazione, in quanto travolta dai ricordi e dalle emozioni che indagano la sua anima, subendo però questa catena di situazioni stressanti con passività. Sebbene sia evidente che l’universo di Bianca richiama all’attenzione l’universo femminile, trovo però in lei situazioni di vita che tutti gli esseri umani in misure e situazioni differenti vivono sulla propria pelle; motivo per cui Bianca siamo tutti noi, al di là del genere. Nel corso delle esperienze rivissute, Bianca ha un’evoluzione che la porterà a (ri)scoprire la sua anima, atto necessario affinché possa vivere lieta. Non è più la donna che viveva con passività le situazioni che le venivano presentate e/o sottoposte dagli altri due personaggi: adesso è una donna che prende le redini del suo universo e impara a domarlo. La torre ben costruita su cui era situata, alla destra del palco, e che è stata sgretolata suo malgrado, adesso giace, distrutta da Bianca stessa, sulla sinistra del palco. Immagine che richiama alla mia memoria il percorso di Pink nell’album The Wall dei Pink Floyd: egli costruisce un muro attorno a sé per proteggersi dalle persone, dalla guerra, dalla società, da sé stesso, così come Bianca fa nella sua torre. Entrambi alla fine dei loro percorsi di vita, di ricordi, di esperienze, camminano lieti fra le macerie di quelle che credevano protezioni: rispettivamente un muro e una torre. Il passaggio è avvenuto, Bianca è (ri)nata e adesso sa anche giocare. Bianca non è più bianca, ma è tutti i colori, poiché la vita, sebbene contorta e soffocante, sa essere lieta e lieve a chi è in grado di trasformare e indagare la propria anima nel corso delle esperienze. La vita è lieta per chi vuol giocare. Alla fine forse bastava solo un pizzico di curiosità?
Ballarini
Scritto e diretto da Emma Dante, ho assistito a quest’opera per la prima volta al Teatro Mediterraneo Occupato, nel maggio scorso. Ho scritto prima volta, perché ho voluto rivederlo per la seconda volta, questa volta sabato 12 ottobre al Teatro Biondo. E magari anche una terza, quando sarà. Ballarini rappresenta uno spartiacque nella mia brevissima esperienza teatrale. E questo è curioso, poiché finora i miei spartiacque teatrali sono rappresentati da Emma Dante. Il primo infatti è Bestie di Scena, prima del quale non avevo idea che esistesse un altro modo di fare teatro oltre a quello classico (i miei amici Sofocle&Co, per intenderci) e ai grandi dell’Ottocento/Novecento. Con Bestie di Scena ho conosciuto un altro mondo che mi ha aperto strade infinite. Ballarini invece rappresenta la sintesi del teatro che ammiro e che mi affascina, una sorta di personale manifesto artistico.
Ballarini, fra cinema e teatro, è attualmente la storia romantica che più di tutte mi ha scaldato il cuore, quella che più di tutte ha saputo raccontarmi l’amore fra due persone in un modo intensamente reale, che va oltre i soliti cliché, i soliti tiamo, e banalità varie. È un racconto ai limiti del grottesco, per la decadenza mostruosa dei visi dei protagonisti, ma è anche un viaggio a ritroso nel tempo, nella loro storia d’amore. Inizialmente sono vecchi, poi un botto improvviso, un petardo, dà inizio al viaggio nel tempo. Un viaggio all’insegna del ballo e della musica. La forza dello spettacolo consiste nell’armonia e nelle movenze del ballo e dei movimenti di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco, senza i quali lo spettacolo non avrebbe la stessa forza e lo stesso carisma che essi trasmettono. La loro complicità è segno di amore, o forse meglio dire, sintomo di amore, poiché anche i loro personaggi richiedono questa necessità che è l’amore. Tolte le maschere da anziani, dunque, il loro viaggio ripercorre eventi passati, una nascita, la fase di gravidanza, il matrimonio, il loro primo incontro; ma alla fine, mentre ballano, ella torna anziana ed egli balla, giovane e divertito. La moglie richiude i ricordi e il marito stesso dentro il baule di lui, e in seguito, ripercorrendo alcuni gesti che all’inizio dello spettacolo aveva condiviso col marito anziano, si rende conto tragicamente che il suo amato non c’è più e ne è afflitta; si siede sul suo baule e guarda quello del marito, morto.
Sulla morte del marito, ho maturato due ipotesi. La prima è questa, ovvero che il marito sia semplicemente morto da anziano e che lei sia rimasta sola; la seconda è forse più fantasiosa, ma, a mio avviso, la più romantica e tragica: il viaggio a ritroso non è stato un elenco di eventi che vivono nei suoi ricordi trarscorsi col marito, ma ciò che sarebbe stata la loro vita, insieme, fino alla vecchiaia, se lui non fosse tragicamente morto giovane. Questo me lo suggerisce il fatto che egli, durante un momento dello spettacolo, danza giovane ed ella invece ritorna anziana, indossando la maschera. Se sia questa o meno la chiave di lettura, non importa, poiché Ballarini ha raggiunto il suo intento, smuovendo – se vogliamo – anche alcuni temi sociali come la solitudine degli anziani, sebbene io preferisca vederci solamente una triste ma forte storia d’amore che è stata e che mai più sarà.
Piccole riflessioni sul teatro palermitano
Voglio cogliere questa occasione per manifestare una piccola riflessione sulle condizioni del teatro a Palermo. Purtroppo spesso ci viene propinata l’idea che a Palermo tutto va male e che bisogna andare fuori. Non solo a teatro, ma per qualsiasi ambito. Da un lato comprendo il movito per cui ci viene vomitata questa realtà a cui noi giovani crediamo solamente perché gli adulti con esperienza e che noi stimiamo ci hanno detto che le cose stanno così. A volte invece ci rendiamo conto da soli di questa realtà scontrandoci contro tanti muri. Eppure mi chiedo, ma davvero le cose stanno così? Senza fare nomi, per non escludere qualcuno, credo che attualmente a Palermo vi sia una forte forza propulsiva verso il teatro, dovuta a tanti luoghi che credono in questa forma d’arte, ma anche a molti giovani che credono in essa. Non so quale fosse la condizione dieci o quindici anni fa, ma dal mio punto di vista sono attualmente fiducioso. Quantomeno per l’aspetto emotivo e passionale dell’arte. Certo… se poi pensiamo ai soldi, ai finanziamenti, eccetera, è vero che la situazione è parecchio tragica. Quello che voglio dire è: qual è il senso di continuare a piangersi addosso perché Palermo fa schifo, a Palermo non c’è nulla, e via dicendo? Questo vale per la vita: perché darsi per sconfitti fin da subito, quando invece basta cercare per trovare un tesoro? Se poi, invece, non si troverà fortuna, non per questo bisognerà essere scoraggiati, perché, come scrive Kavafis: “e se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. // Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso // già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.”, ogni esperienza è comunque una lezione di vita.
Il mio invito è ai coetanei: non demordiamo. Siamo più furbi degli adulti che ci dicono, giustamente (lo capisco!), che bisogna andare via per trovare fortuna. Però se siamo costretti ad andare via è perché gli adulti di oggi non ci hanno lasciato nulla su cui costruire il nostro futuro. Auspico in una stretta collaborazione generazionale fra adulti e giovani, per rilanciare seriamente la vita economica, artistica e sociale di questa terra. Di questo mondo.

dramma.it - Autore: Maria Dolores Pesce - 03/10/2019

BIANCA
Performance fisica, figurativamente espressiva, contenuta e accompagnata in una coerente drammaturgia musicale. Un percorso che man mano, dalle vette aperte della solitudine precipita nell’intimità di una donna apparentemente abbandonata in scena e che incontra due personaggi guide, trasfigurati Virgilio del proprio viaggio e custodi della memoria, una memoria insieme singolare e collettiva, la memoria in fondo dell’universo femminile, che lo spettacolo scava con pazienza, ovvero del femminile tout court, con le sue paure e le sue speranze. Giocato sulla relazione e sulle dinamiche del movimento illumina spazi e tempi della intimità di ciascuno, costruendo senso anche sul rapporto uomo donna, nei reciproci rispecchiamenti e coinvolgimenti scavando nella complessità stratificata. C’è in tutto ciò anche una fatica evidente a contrasto della gravità che trascina ‘in basso’ oggetti e corpi, a metafora della capacità del femminile di essere insieme antagonista e costruttivo. Intenso e coinvolgente sta prima di ogni parola, fondandone la sincerità. Compagnia Civilleri/Lo Sicco, formatasi anche nell’esperienza con la “Compagnia Sud Occidentale”. Ideazione e regia Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco. Con Filippo Farina, Manuela Lo Sicco e Simona Malato. Drammaturgia musicale Gianni Gebbia e Giovanni Verga. Scenografia Cesare Inzerillo. Luci Cristian Zucaro.

teatro.persinsala.it - Autore: Redazione - 01/08/2019

Il piccolo Festival nel borgo di Lari non si arrende. In attesa che si concretizzi il nuovo progetto città INvisibile, con – si spera – il relativo finanziamento europeo, Scenica Frammenti propone una manifestazione ridotta ma di qualità.
Nell’ambito del Festival Collinarea assistiamo, presso il Teatro Comunale di Lari, allo spettacolo Bianca della Compagnia Civilleri/Lo Sicco. Nel raccolto ambiente oscurato la paura, se non il terrore, della donna è palpabile. Arroccata tra le proprie paure tenta di difendersi dal mondo circostante – incapace di qualsiasi movimento o azione. Dall’esterno – o forse di fronte a una proiezione di se stessa – arriva la forza che la obbligherà ad abbandonare, rumorosamente, le ataviche paure e certezze. Un percorso difficile e irto di pericoli che solo una presunta forma di razionalità riesce, temporaneamente, a interpretare, visualizzandolo in una geometria insieme perfetta e surreale. Musica e gesti si coniugano con gli umori e le paure della donna – ottimamente interpretata da Manuela Lo Sicco. Fantasmi la inseguono, ne infestano la vita ma, momentaneamente, riesce a contenerli aggrappandosi alle poche cose e pensieri peraltro minuziosamente riposti – nella mente.
Il ritorno alla cosiddetta normalità per certi versi anche gioiosa e liberatoria è peraltro abbastanza conformista, portandola a cercare le proprie sicurezze nell’uomo. Il nuovo rapporto, di coppia, con la figura femminile aggrappata all’altro da sé riapre lentamente le vecchie ferite che si manifesteranno sempre più insistentemente sino quasi ad annullarne la volontà di vivere. Unica soluzione, manifestatasi attraverso sferzanti lampi di luce, sottolineati, questi ultimi, da un’ottima colonna sonora, quella di identificarsi nell’uomo per cambiare la propria prospettiva di vita, rivestirne i panni per colpire colui che è la causa, almeno apparente nella sua fisicità, dei propri mali. La presa di posizione, prima tollerata e quasi condivisa quasi fosse un gioco, con il passare del tempo destabilizza il maschio, ne mina le certezze, sino a trasformarlo, a sua volta, vittima di questo capovolgimento. Gli interessi della donna, le sue aspirazioni, soffocano la figura maschile che – quasi ingabbiata – fatica a reagire. La svolta drammatica, la scelta tra salvarlo o distruggerlo, è il nuovo dilemma che tormente la donna. E l’ultima parte dello spettacolo si rivela la più pesante, laddove la rabbia regna sovrana sino alla consumazione del rapporto che, però, nella sua drammaticità, è allievato dalla comparsa della parola – sino a quel momento assente – di un bimbo e della madre. Una soluzione inaspettata o l’inizio di un nuovo confronto/scontro?
La risposta, forse, nel mondo che ci circonda, ove la violenza all’interno dei rapporti familiari è tristemente e drammaticamente notizia quotidiana. Il possesso, nelle sue varie forme, la fa ancora da padrone lasciando le donne sempre più sole (vista anche l’ultima notizia del rischio di chiusura di due centri antiviolenza in Umbria) di fronte a queste problematiche. Un tema affrontato, nello spettacolo, in tutta la sua drammaticità con i protagonisti sempre all’altezza delle situazioni.

Lo spettacolo è andato in scena nell’ambito di Collinearea 2019:
Teatro Comunale
Lari (PI)
giovedì 1° agosto, ore 20.30
Civilleri / Lo Sicco hanno persentato:
Bianca
ideazione e regia Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco
con Filippo Farina, Manuela Lo Sicco e Simona Malato
drammaturgia musicale Gianni Gebbia e Giovanni Verga
scenografia Cesare Inzerillo
luci Cristian Zucaro
produzione Civilleri / Lo Sicco
supporto alla produzione UOT – Unità di Organizzazione Teatrale, in collaborazione con TMO – Teatro Mediterraneo Occupato

www.collinarea.it

Fonte: teatro.persinsala.it

traiettorie.org - Autore: Simona M. Frigerio - 01/08/2019

Collinarea Festival organizzato da Scenica Frammenti giunge alla XXI edizione, e quest’anno si pone l’obiettivo di trasformare il piccolo borgo toscano di Lari in un nodo di connessioni.
Nonostante le difficoltà economiche affrontate negli ultimi anni, che hanno costretto la direzione artistica di Scenica Frammenti a comprimere temporalmente la manifestazione e a diminuire il numero di spettacoli e artisti ospitati, Collinarea mostra una forte volontà di resistere – e di farlo in maniera costruttiva, ossia rilanciando il Festival con un futuro progetto pluriennale finanziato anche con un contributo europeo.
Quello che si nota, percorrendo il borgo, è il valore di questo Festival per Lari, un paesino arroccato intorno al suo Castello e che, pur mantenendo intatto il suo fascino, sembra che si stia inesorabilmente spopolando.
Rispetto all’ultima visita fatta, nel 2014, sono molte le attività commerciali che hanno chiuso e anche i turisti che ne percorrono le vie non paiono sufficienti a mantenere in vita questo gioiello perso nella campagna toscana.
Collinarea ha, innanzi tutto, il pregio di abitare tutti gli spazi di Lari, dalla piazza al Circolo Arci fino al Castello e al teatro, che diventano palcoscenici naturali o ad hoc per il succedersi di performance e altre iniziative, come la proiezione di documentari, i laboratori e gli incontri che, quest’anno, si concentrano sul tema della connessione (ma ci torneremo più oltre).

Gli abitanti di Lari, negli ultimi anni, dopo un periodo di indifferenza o addirittura di ostilità – anche aperta – sembrano avere acquisito una maggiore consapevolezza di come Collinarea sia davvero parte della loro storia ed evento culturale che li rappresenta, all’esterno, e li autodefinisce, all’interno. Non a caso sono i cittadini, i singoli ma anche le famiglie, che offrono (soprattutto da quando le economie si sono ridotte anche a causa della scomparsa dei finanziamenti del Teatro Era di Pontedera) ospitalità agli artisti e ai critici, dimostrando come questa manifestazione sia diventata patrimonio comune e condiviso.
E ancora, quest’anno, l’intero borgo, nella giornata finale di sabato 3 agosto, si trasformerà in un enorme palcoscenico a cielo aperto, ossia nella Napoli di Eduardo – coi suoi panni ad asciugare, appesi ai balconi e alle finestre – per ospitare tra le sue viuzze o all’interno dei suoi cortili una versione originale di Natale in Casa Cupiello.
In questo clima collaborativo e di condivisione, prima dello spettacolo Bianca, firmato da Civilleri Lo Sicco, ecco quindi incontrarsi professionisti di settori che appaiono lontanissimi gli uni dagli altri. Carlo Ventura, biologo molecolare dell’Università di Bologna,Salvatore Tedesco, professore di estetica dell’Università di Palermo, e Fabrizio Galatea, regista del documentario Sa femina accabadora (che sarà proiettato più tardi in serata) sono stati invitati a raccontare come, in qualsiasi ambito – dalla biologia al pensiero filosofico passando per la realtà aumentata – le connessioni siano una necessità che si trasforma in scelta vincente.
La discussione, interessante in sé, serve anche per lanciare l’idea di porre Lari al centro di un progetto europeo intitolato città INvisibile, che crei connessioni trasversali tra discipline, arte e scienza, tecnologia e teatro, permettendo di fruire – grazie alle nuove possibilità offerte dalla rete – dello spettacolo dal vivo in modo diverso. Il progetto, per il momento delineato a grandi linee, sembra ambizioso e si porrebbe l’obiettivo – per quanto è dato capire – di mettere in connessione vari spazi culturali e artistici del circondario, ma altresì di costruire reti di condivisione allargate a vari Paesi europei, e infine di trasmettere online la manifestazione dal vivo ma anche immagini fruibili – pensiamo in 3D – di musei, dei borghi coinvolti, degli spazi dedicati all’arte o al sapere in senso più ampio. Un progetto che, ovviamente, prevederà la richiesta di un finanziamento europeo e intorno al quale Collinarea sta coinvolgendo altre città e manifestazioni. Nei prossimi anni cercheremo di tornare sull’argomento per capire se è stato possibile realizzarlo.

BIANCA

In prima serata, lo spettacolo è Bianca, con l’ideazione e la regia a quattro mani di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco. Un percorso nel dolore e nelle paure di una donna, insieme se stessa eppure archetipo di molte tra di noi.
Grazie a un utilizzo à la E. G. Craig dello spazio e degli oggetti che lo delimitano e compongono la messinscena, la realtà più intima è palesata in geometrie significative: che includono, escludono, proteggono o soffocano l’essere umano. Di grande pregnanza, a proposito, la prima scena con la protagonista arrampicata (eppure in bilico) su una caterva di sedie ammonticchiate che la preservano dall’ambiente circostante ma, allo stesso tempo, le impediscono la socializzazione. L’inserimento nella realtà avviene attraverso un atto di forza che ha, però, la bellezza e la grazia dell’aiuto tra donne.
A seguire, e per oltre due terzi dello spettacolo (ottimamente agito da Filippo Farina, Manuela Lo Sicco e Simona Malato) Biancaprova in ogni modo a integrarsi, passando per quelle false sicurezze che sono, al contrario, dipendenze, dal fitness all’alcool fino al matrimonio, visto come possibilità di innalzarsi, di trovare un proprio ruolo – stabile – al fianco di un uomo. Un uomo al quale alla fine ci si aggrappa disperatamente e che, al contrario, aspira a una libertà superficiale (interessante la scena danzata da Filippo Farina con gli abiti femminili appesi alle braccia).
L’insieme drammaturgico e registico, la composizione delle geometrie e l’uso di una mimica inappuntabile fanno scorrere l’azione in un crescendo che raggiunge il climax nell’abbandono di tutto e di tutti, nella presa di coscienza che qualsiasi elemento esterno – umano o meno che sia – non serve a puntellarci nell’esistenza, a farci sentire centrate e presenti a noi stesse.
Ci si trova di fronte all’ennesima dipendenza o assunzione del cliché quale garanzia del proprio ben-essere nel mondo, ossia alla presa di posizione che una donna è veramente se stessa solamente quando assume il ruolo di madre; oppure alla denuncia di un eterno ritorno dal quale non è possibile affrancarsi e, di conseguenza, seppure si è ucciso il maschio, se ne crescerà un altro che ricalcherà il medesimo modello?Qui potrebbe calare il sipario che non c’è. Il finale, al contrario, si slabbra un po’. Si fa avanti un certo caos creativo. Il maschio deve perdere la propria mascolinità per conquistare una nuova consapevolezza di genere? La scena delle scarpe sembrerebbe mostrare questo risvolto, ma poi i continui tentativi di uccidere il maschio stesso generano quel senso di caos di cui si accennava. Così come la nascita del figlio apre la porta a nuovi dubbi (sebbene questi più che leciti in un lavoro creativo che non voglia essere assertivo bensì realmente artistico e, quindi, scevro da preconcetti e aperto al dialogo con lo spettatore).
Dubbi che il teatro, quando è tale, deve suscitare.

Simona M. Frigerio
Visto a Collinarea Festival, Lari (Pisa), giovedì 1° agosto 2019

Fonte: traiettorie.org

rumor(s)cena.com - Autore: Paolo Randazzo - 06/05/2019

Bianca” è uno spettacolo interessante, la sua sostanza è densa, discreta, contratta. L’ultima creazione della compagnia “Civilleri – Lo Sicco” è andata in scena a Catania nel contesto della rassegna “Altre scene”, organizzata dal Centro Zo in collaborazione con la rete di drammaturgia contemporanea “Latitudini”. Un allestimento senza parole, ideato e diretto da Sabino Civilleri e da Manuela Lo Sicco che interpreta il ruolo di Bianca e con lei recitano anche Simona Malato e Filippo Farina: ambedue dotati di belle personalità attoriali rigorosamente al servizio del concept dello spettacolo. La prima osservazione utile è quella nel rilevare come alcuni stilemi tipici della lingua teatrale di Civilleri e Lo Sicco: l’andatura nervosa fatta di passettini che si susseguono senza alcuna regolarità; la fila rigorosa delle sedie che però si apre e si va rimodulando nel corso dello spettacolo, siano presenti come motori interni, attivi e capaci di generare altri discorsi teatrali. Una donna (probabilmente alla fine di una importante storia d’amore) nel corso di una sola e lunga notte fa i conti con se stessa, con i fantasmi che abitano i suoi cassetti e la condizionano con la sua storia personale (la bambina, la figlia adorata, la donna innamorata che era stata, la madre che è).
Si deve confrontare con la sua solitudine inaccessibile, come una torre e con un futuro vuoto, che gli si prospetta: occorre allora scendere dalla propria “prigione” di dolore e solitudine, togliersi tutte le maschere, condannare duramente e condannarsi senza sconti, perdonare e perdonarsi. “Ferire e incassare”, andare via e lasciare andare, perdersi definitivamente e ritrovarsi ancora una volta a sorridere, magari con la gioia del naufrago che si gira a guardare il mare. Non ci sono parole in Bianca e non è possibile definirlo uno spettacolo di danza ma il suo movimento interno parla con chiarezza, la sua drammaturgia è determinata dal movimento degli attori, dai loro corpi che intrecciano relazioni fantasmatiche eppure totalmente reali. Dal ritmo che lo connota, dalla luce che dilata o restringe il senso di ogni singolo elemento, dalle musiche di sapore jazzistico che sembrano scavate (è il segno forte della musica di Gebbia) nelle viscere della vita e che danno spessore al tutto e sostanza densa ma anche discreta, dunque: perché i singoli elementi sono profondamente amalgamati in un percorso poetico che segue ritmo e rapporti di connotatività che moltiplicano i significati. Non solo perché sembra rifiutare radicalmente qualsiasi facile allettamento rivolto al pubblico, ma perché discrezione è anche intelligenza critica della scena, capacità di leggere dentro e di andare a fondo. Rivela sostanza quasi contratta ma questa caratteristica alla fine contiene anche un difetto: la genericità silenziosa del personaggio di Bianca rende debole la sua possibilità di comunicare, un simbolo senza parole, laddove invece una parola “detta”, anche sotto forma di canto, di poesia, urlo, forse avrebbe sporcato l’esatta finitezza di questo lavoro, ma gli avrebbe dato un senso chiaro e quindi aperto, criticabile e forse più fecondo.

Paolo Randazzo

Fonte: rumorscena.com

dramma.it - Autore: Maurizio Giordano - 29/04/2019

L’associazione culturale Civilleri/Lo Sicco ha proposto al Centro Zo di Catania, all’interno della rassegna “AltreScene”, la pièce “Bianca”, ideazione e regia di Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco. In scena Manuela Lo Sicco, Filippo Farina e Simona Malato, scenografia di Cesare Inzerillo, luci di Cristian Zucaro e musiche di Gianni Gebbia e Giovanni Verga. La pièce intensa e particolare, con un impianto scenografico curato da Cesare Inzerillo che si compone e scompone e con le musiche, a tratti volutamente invasive e disturbanti di Gianni Gebbia e Giovanni Verga, proietta il pubblico in una dimensione surreale, in una galassia femminile “altra”, dove si muovono due donne ed un uomo che, in circa 50 minuti, costruiscono una sorta di ragnatela di azioni, di movimenti. Tutto in assoluto silenzio da parte dei tre interpreti che non usano la parola e vengono solo accompagnati da un tappeto sonoro che racconta il percorso frammentato, le tracce della memoria, il disordine dell’esistenza di una donna, Bianca. Appena entrato in sala il pubblico viene accolto dalle due interpreti, Manuela Lo Sicco e Simona Malato, sedute su una torre di sedie bianche e poi si prosegue con una serie di quadri, di composizioni, di ricordi  che coinvolgono la protagonista Bianca (una efficace Manuela Lo Sicco che si esprime con i suoi movimenti e le sue espressioni) coinvolta, irretita, avvolta, in diverse situazioni esistenziali, guidate da due figure misteriose, quasi due apparizioni, che l’aiutano a fare ordine nel caos della sua vita, che si spostano in modo inquietante dentro dei cassettoni della memoria, dando quasi degli input alla protagonista ora circondata da alcune sedie, ora alle prese – in un momento di pausa – con una sfera bianco-perla, ora isolata ed indecisa sul da farsi.
La pièce dove per scelta registica gli interpreti sono privati della parola, vive su continui movimenti e spostamenti, supportata dal vibrante tappeto sonoro di Gianni Gebbia e Giovanni Verga e da un impianto scenografico dove prevalgono sedie, cassettoni che scivolano inquietanti sulla scena ed altri pochi oggetti.
La protagonista, Bianca, vive quindi nella sua memoria una esistenza “altra”, rannicchiata nella sua solitudine, ripiegata su se stessa mentre le due figure guida (interpretati con rigore da Filippo Farina e Simona Malato) sembrano farle ripercorre alcuni sogni, episodi, trascorsi del proprio vissuto, alla ricerca della sua identità di donna, per dare una risposta alla sofferenza della sua esistenza. E le due figure guida, che appaiono e scompaiono all’improvviso e si muovono all’interno di due cassettoni della memoria, sono autentici manipolatori del tempo e dello spazio, custodi e protagonisti della memoria di Bianca. Queste due presenze, tra sedie, luci e mancanza della parola, strutturano e destrutturano, costruiscono e sconvolgono atmosfere e situazioni, confondendo a volte lo spettatore.
Sabino Civilleri, autore e regista teatrale, che ricordiamo ha lavorato per anni con Emma Dante fondando la compagnia Sud Costa Occidentale e con Manuela Lo Sicco, ha dato vita alla nuova compagine artistica Civilleri/Lo Sicco per la formazione e la ricerca, in collaborazione con le più importanti strutture nazionali del settore.
Un allestimento teatrale, quello di Civilleri-Lo Sicco – che qualcuno confonde ed associa al teatro-danza – non facile, soprattutto per la scelta del percorso narrativo, ovvero la parola muta e per l’essenzialità dell’espressione che, nonostante qualche difficoltà di comprensione ed inquietudine da parte dello spettatore, regala emozioni grazie ai silenzi, agli elementi stranianti, alla forza emotiva dei corpi ed alla equilibrata scelta musicale di Giovanni Verga e Gianni Gebbia molto funzionale per far emergere ricordi, riflessioni, suggerire idee, sussurrare nomi, gridare rabbia, paura e dolore.
Uno spettacolo frutto di una lunga gestazione (quattro anni di ricerca e studio, scrittura e riscrittura) e particolare, che alla fine riscuote gli applausi del pubblico presente al Centro Zo.

Maurizio Giordano

Fonte: dramma.it

rumor(s)cena.com - Autore: Serena Falconieri - 25/03/2019

RUMOR(S)CENA – BIANCA – TEATRO ALLA CORTE DI GIAROLA – COLLECCHIO – (Parma) – Nel mese di febbraio ha debuttato al Teatro alla Corte di Giarola di Collecchio (in provincia di Parma) lo spettacolo Bianca  nato dal connubio tra Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco. Un allestimento teatrale che ha eliminato ogni elemento sovra-strutturale per giungere all’essenzialità dell’espressione: corpi che si muovono e raccontano senza proferire parola, musica, anzi suono, che supporta la narrazione muta per definire l’immaginario. È col suono che inizia la rappresentazione dei ricordi a ritroso di Bianca, la sua catabasi: elemento sonoro destrutturato fino a diventare frequenza archetipa, capace di accogliere lo spettatore in uno spazio altro rispetto alla vita poco innanzi trascorsa, prima di varcare la soglia del teatro, un suono con capacità catartiche.
Agli occhi, sullo sfondo buio, si presenta una torre di sedie di legno chiaro su cui, in bilico stabile, si erge solitaria Bianca, immersa nei suoi ricordi, nostalgie, paure, sofferenze. Pochi minuti in cui la capacità recitativa della protagonista, Manuela Lo Sicco, si esprime appieno, così come in tutto lo spettacolo, attraverso la mimica del volto e del corpo. Il suo sguardo è sul niente, lontano dalla realtà, fino a ripiegarsi su se stessa. A terra, semicelati dall’oscurità, i grandi cassetti della memoria.
Quando da questa torre di Babele emotiva decide di scendere, ecco che inizia un racconto umanissimo il cui percorso narrativo risulta chiaro nonostante la scelta dell’autore sia non facile: la parola muta. Una scelta fatta non in primis, ma in itinere con la volontà di giungere ad una drammaturgia emotiva, privata dell’aspetto significante della parola, per lasciar spazio al significato espresso fino alla sua massima potenzialità, intersecato ed esaltato dalla ferrea ed equilibrata drammaturgia musicale di Giovanni Verga e Gianni Gebbia. Suono che sottende come elemento propulsore per far emergere ricordi, abbozzare riflessioni, sussurrare idee, bisbigliare nomi, gridare la rabbia, urlare il dolore. Per esaltare la riscoperta di sé.
In questo viaggio Bianca non è sola, ha due medium, che affiorano dai cassetti della memoria, un uomo (Filippo Farina) e una donna (Simona Malato) che dapprima estranei ed in apparenza appartenenti ad un mondo onirico angosciante (l’uso degli hoverboard spinge al massimo l’elemento straniante), l’aiutano a fare ordine nel caos della sua vita (i colori dell’abbigliamento nei diversi quadri sono legati alle emozioni). Momenti di ‘chaos’ che appartengono ad ogni essere umano, ad ogni donna, ad ogni Bianca, quando si arriva ‘ad un certo punto’, quando la vita costringe a fermarsi e a riflettere per rimettere in ordine il proprio universo personale.
Dal ‘chaos ‘in rielaborazione si genera un vuoto intermedio in cui non esistono lo spazio ed il tempo. Qui si muove Bianca. Da questo non-luogo (che cambia forsennatamente e allegoricamente con lo spostamento delle sedie il linea retta, in cerchio, in fila doppia prospicente), da questo non-tempo, scava e fa emergere ricordi che fungono da momenti di auto-analisi, operazione faticosa che ha momenti di pausa in cui Bianca culla, cura, metaforicamente una sfera bianco-perla. Poi ritorna l’affannarsi dei vizi emotivi, delle manie, della malinconia. Le luci entrano a far parte a pieno titolo della drammaturgia, insieme al suono.
Tutto torna e termina, in un solo attimo che vale come presa di coscienza, in una sola, l’unica, parola che ha senso e che dà senso all’essenza di ogni donna, la maternità: un video sullo sfondo ed immagini di una madre e di un bambino. Voci, risa, lallazioni allegre, suoni archetipi, che concedono a Bianca di ripartire. Non è stata una gestazione facile quella che ha condotto alla realizzazione di questo spettacolo ‘non-pop’: quattro anni di ricerca e studio, scrittura e riscrittura per sottrazione in cui gli autori si sono spesso interrogati se mantenere l’uso della parola e rendere più agevole allo spettatore la comprensione del significato dello spettacolo. L’impianto narrativo, nonostante la difficoltà iniziale del pubblico che può tendere ad associare erroneamente lo spettacolo al teatro-danza, appare chiaro, lineare dal punto di vista drammaturgico, così come in un’opera teatrale ‘classica’. La regia risente positivamente del coinvolgimento personale nella storia: si sa come raccontare perché si conosce profondamente la vicenda.
Visto il 2 febbraio al Teatro alla Corte di Giarola di Collecchio

Serena Falconieri

Fonte: rumorscena.com